Sarebbe banale definirla una morte annunciata, quella di Amy Winehouse, trovata senza vita nella sua casa londinese il pomeriggio del 23 luglio, deceduta per un micidiale mix di alcool e droga.
Dei suoi problemi e dei suoi numerosi tentativi, falliti, di superarli, nessuno, neppure lei faceva mistero, anzi ha dedicato loro una canzone, la famosissima Rehab, che fa riferimento ai centri di riabilitazione molto frequentati dai vip vittime di pericolose dipendenze.
Banale sarebbe anche citarla come nuovo membro del maledetto club dei 27, al quale fanno parte musicisti e cantanti che, prima di lei, sono morti all’età di 27 anni. Il gruppo è tristemente numeroso, se si considera che ne fanno parte Janis Joplin, Jimi Hendrix, Jim Morrison, John Belushi, Kurt Kobain ed anche gli attori Heath Leadger e River Phoenix.
Benché tutto questo sia vero, cioè che la sua vita sia stata costellata da eccessi e pericolosi abusi, ci riesce difficile accostare l’aggettivo “banale” ad una stella come Amy Winehouse.
Niente lo era, in lei, a cominciare dalla voce, unica, calda e vagamente retrò, in grado di affrontare qualunque nota senza sforzo, ma che strideva con il suo aspetto esteriore, esagerato nel trucco e nella pettinatura. La potenza della sua capacità vocale sembrava quasi una magia, in confronto al suo corpo esile e minuto, messo a dura prova in passato dai disagi alimentari di anoressia e bulimia.
A giudicarla dall’aspetto, ci si sarebbe aspettati, da lei, canzoni aggressive e profondamente rock, per non dire punk, e invece le sonorità alle quali era più vicina, e che sapeva interpretare in maniera struggente, erano quelle dei migliori soul, rhythm and blues, jazz e rock and roll.
Come dimenticare la meravigliosa Back to black, oltre alla bellissima rivisitazione di Cupid? Appena comincia la musica, si aspetta con impazienza di essere avvolti dalle atmosfere di una volta, che lei sapeva creare apparentemente senza sforzo.
Probabilmente, invece, essere una star, o magari solo essere Amy, era troppo difficile per lei, ragazza fragile che si nascondeva sotto cerone, eye liner e tatuaggi. Avrebbe desiderato apparire forte ed invincibile, ma non lo era e le sue debolezze erano state immortalate in immagini e video che su internet spopolavano.
“Ecco Amy Winehouse che cade mentre si esibisce sul palco”, “Amy Winehouse troppo sbronza non si ricorda le parole delle sue canzoni”, “Sentite i fischi che le hanno riservato i fans al suo ultimo concerto”. E magari si pensava che non gliene importasse nulla, che su di lei tutto scivolasse come acqua fresca.
Sicuramente non è stato così per la fine della sua ultima relazione, quella con il regista Reg Traviss che, a quanto pare, ha segnato il definitivo ritorno di Amy ad un consumo pesante di droghe, il cui epilogo è stato scritto sabato.
Niente ha potuto fare sua madre, la quale, proprio venerdì sera, ha visto la figlia per l’ultima volta e ha intuito che il filo sul quale camminava da sempre si stava assottigliando in modo inesorabile ed inevitabile.
Se si tratta di un suicidio o di una overdose ancora non ci è dato sapere, ma il confine tra uno e l’altra è molto sottile, e l’eventuale responso non cambierebbe nulla di ciò che in queste ore è stato detto.
Non si trattava solo di una cantante di successo, ma di un’artista che aveva saputo imporsi sulla scena musicale britannica prima e mondiale poi grazie ad un talento innato che la poneva a livello delle più grandi star del passato, come Ella Fitzgerald, Mahalia Jackson e Aretha Franklin. Lei stessa aveva imparato ad amarle grazie a suo padre, musicista a sua volta, e a sua madre, appassionata anche di Carole King e James Taylor.
Era quindi un vero e proprio patrimonio che nessuno, a cominciare da lei stessa, ha saputo salvaguardare, ed ora che il sipario si è chiuso per sempre, possiamo solo lasciarsi trasportare, ancora ed ancora, dalla sua voce.
Vera Moretti