Negli ultimi decenni, il rapporto con il lavoro ha subito trasformazioni radicali. Se in passato il lavoro veniva considerato come uno strumento per il sostentamento, oggi la società moderna sembra attribuirgli un valore quasi mistico, con un’aspettativa crescente che esso debba fornire soddisfazione, identità e significato. Il lavoro diventa una parte così fondamentale della nostra vita che quasi la ingurgita, facendo rimanere ben poco, soprattutto se si fa un lavoro in cui siamo sempre messi sotto pressione. Un recente articolo del Guardian, firmato da Tessa West, professoressa di psicologia alla New York University, esplora le insidie di questa concezione idealizzata, avvertendo che l’amore per il proprio lavoro potrebbe essere, in realtà, più pericoloso di quanto sembri.

La teoria di Tessa West: il mito dell’amore per il lavoro

West racconta la storia di Ted, un professore che, dopo 60 anni di insegnamento, mantiene un rapporto sano e distaccato con la sua professione. Sebbene Ted sia stato profondamente coinvolto nella vita accademica, ha saputo separare la sua identità professionale da quella personale – il famoso bilanciamento tra tempo libero e tempo impiegato a lavoro – riuscendo a coltivare altre passioni e interessi. Contrariamente a ciò che ci si potrebbe aspettare, questo equilibrio gli ha permesso di sopravvivere e prosperare in un contesto che, oggi, spinge molte persone a ricercare una connessione emotiva quasi totalizzante con il proprio lavoro.

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West sostiene che “l’idea che amare il proprio lavoro sia una condizione necessaria per essere felici e risolti” non solo è falsa, ma può anche avere effetti negativi sulla nostra salute mentale. Il mito del lavoro come fonte primaria di realizzazione personale crea aspettative irrealistiche, portando molti a sentirsi inadeguati o insoddisfatti se non raggiungono questo obiettivo. Questo fenomeno, definito dalla psicologa come “ignoranza pluralistica”, fa credere a molti che tutti gli altri abbiano trovato l’amore per il proprio lavoro, quando in realtà non è così.

Secondo West, questa ossessione per il lavoro “può indurre in noi il desiderio di abbandonare la nave al primo segnale di difficoltà”, quando in realtà il successo e la soddisfazione spesso richiedono tempo e perseveranza. Inoltre, l’eccessivo attaccamento emotivo al lavoro può portare a stress cronico e burnout, poiché “ogni fallimento o battuta d’arresto viene vissuto come un colpo devastante”.

Il senso del dovere: come siamo messi in Italia

In Italia, dove il senso del dovere e la dedizione al lavoro sono valori profondamente radicati nella cultura, prendere spunto dalle riflessioni di Tessa West può aiutarci a fare qualche miglioramento. La società italiana è storicamente legata a una visione del lavoro come missione. L’idea di “fare il proprio dovere” è spesso associata a un impegno totale, che può portare a sacrificare la vita privata e il benessere personale. Ma è proprio questo impegno a oltranza che rischia di causare gravi danni alla salute mentale e al benessere generale dei lavoratori.

Secondo un rapporto dell’INAIL del 2023, circa il 32% dei lavoratori italiani soffre di stress lavoro-correlato, una cifra in crescita rispetto agli anni precedenti. Inoltre, i dati dell’ISTAT mostrano che nel 2022, quasi il 40% degli italiani intervistati ha dichiarato di sentirsi insoddisfatto del proprio equilibrio tra lavoro e vita privata. Questi numeri evidenziano l’urgenza di riconsiderare il rapporto con il lavoro nel nostro Paese, dove la tendenza a definire se stessi attraverso la propria carriera può avere effetti devastanti.

Verso un nuovo approccio: lavoro sì, ma non tutto

Come suggerisce West, per sviluppare un rapporto sano e duraturo con la propria carriera, è fondamentale “baciare il mito dell’amore per il lavoro e lasciarlo andare”. Non si tratta di abbandonare l’impegno o la dedizione, ma di costruire una distanza psicologica salutare che permetta di trovare soddisfazione anche in altre sfere della vita. Riconoscere che non tutte le parti di un lavoro devono essere amate e che il lavoro stesso non deve essere l’unica fonte di identità e valore personale è essenziale per preservare il benessere.

In Italia, dove la dedizione al lavoro è ancora vista come una virtù cardinale, questa prospettiva può sembrare rivoluzionaria. Tuttavia, se non vogliamo vedere crescere i tassi di burnout, depressione e insoddisfazione, dovremmo imparare a prendere esempio da persone come Ted, che pur avendo amato il loro lavoro, non hanno mai permesso che esso definisse totalmente la loro esistenza.

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Il lavoro è importante, ma non è tutto. Un’iniziativa che sarebbe auspicabile che il nostro governo prendesse in considerazione è senza dubbio il salario minimo. Una iniziativa che potrebbe portare maggiori garanzie a chi fa un lavoro mal pagato ad esempio e che molto probabilmente si sente sopraffatto dal proprio lavoro più che soddisfatto. Possiamo sperare un giorno che tutti possano lavorare il giusto senza vivere per lavorare?

MaZ

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