“È il vestito che deve seguire il corpo di una donna, non il corpo che deve seguire le forme del vestito”, era solito dire Hubert De Givenchy. Una filosofia che la moda di oggi sembra essersi dimenticata, intenta com’è a creare abiti che portano alla standardizzazione del corpo di una donna. Oggi che il compagno Philippe Venet, con cui viveva in un castello rinascimentale nei pressi della capitale francese, diffonde la notizia della sua morte, avvenuta nel sonno, lo scorso sabato a Parigi, questa frase ci riecheggia con più forza e ci fa piangere il genio scomparso in maniera ancora più sentita.
Se ne va così, sottovoce, un altro dei più grandi couturier del nostro tempo, raffinato artista e maestro, che ha scritto una delle pagine più belle e significative della moda contemporanea. Innamorato sin da bambino della moda, decide di ignorare le obiezioni della famiglia per andare a Parigi a inseguire il suo sogno. Il dopoguerra parigino è per lui un periodo di formazione fondamentale, quello che vede la genesi della sua arte, quello in cui butta le basi per coronare il sogno, quello in cui partecipa attivamente al fervore culturale di una Parigi che si risveglia dal torpore e dal lutto della guerra, quello in cui entra prima nell’atelier di Jacques Fath per poi passare da Piguet, Lelong e Schiaparelli.
Giovane, giovanissimo, a soli 25 anni fonda il marchio che porta il suo nome, inaugura il proprio atelier nella Rue Alfred de Vigny, nell’8° arrondissement di Parigi. È subito un successo di stampa e critica, che si traduce immediatamente nell’assoluta fiducia di buyer, innamorati della sua famosa blusa Bettina, diventata uno dei capi più iconici di sempre e amati del periodo. Ma è l’incontro con la sua musa, Audrey Hepburn, che segna una svolta significativa nella sua carriera.
Un incontro che lo portò ad immaginare per lei, così minuta, magra e asciutta in un’epoca di pin-up dalle forme morbide e seducenti, un abito dalle linee asciutte e pulite, nel più classico e intramontabile dei colori, il nero. Nasceva da questo felice e fortunato sodalizio una delle creazioni più iconiche di sempre, il tubino nero, insieme ad una serie di capi, pensati per lei che divenne l’ambasciatrice ideale del suo stile, di un’eleganza raffinata, in grado di superare le barriere spazio temporali. Uno stile sempre sobrio, semplice e rigoroso, ma ricco di grazia.
Quella stessa grazia che tracimava dalla sua figura, così aristocratica, è raffinata, benedetta dal dono dell’eleganza naturale e mai artefatta, quella stessa grazia che lo spingeva sempre verso la purezza dell forme e la ricercatezza dei dettagli, quella stessa grazia che lo portò a vedere in Cristoball Balenciaga e Vionnet, mentori e maestri per la definizione del suo stile. Quella stessa grazia che lo portò ad uscire di scena in maniera discreta, quando nel 1995 lascia la guida della sua maison, che nel frattempo (era il 1988) era stata venduta al gruppo LVMH.
E noi, in questo triste lunedì di marzo, vogliamo ricordarlo con le sue più belle e sentite parole, pronunciate in occasione dell’apertura della mostra Givenchy 40 years of creation. “Fin dalla mia infanzia sono stato sedotto dalla moda. Il mio lavoro è stato la mia vita. Il mio mestiere è stato il più bel lavoro che potessi fare ed ecco perché l’ho amato così tanto ed ecco perché l’ho scelto fin dall’inizio. Non smetterò mai di amarlo, mai“.