Una squadra, infatti, è una piccola società, con i suoi rituali e i suoi obiettivi, che vanno conseguiti con perseveranza, impegno, rispetto reciproco e collaborazione, doti che sono richieste anche a scuola e, in futuro, in ambito lavorativo.
Se poi, con i propri compagni di squadra, si raggiungono successi e vittorie, tanto meglio, anche se non è strettamente necessario.
Contrariamente a quanto si pensa, infatti, non ci si appassiona ad uno sport solo se si vince e si arriva primi ma soprattutto se ci si diverte e si fa amicizia con i propri compagni. Sentirsi a proprio agio con i coetanei e gli adulti, come l’allenatore e il dirigente, è indispensabile per i piccoli atleti, mentre le vittorie rappresentano solo un valore aggiunto, del quale fare a meno volentieri se non accompagnate da uno spogliatoio amichevole e sereno.
Questa teoria, che spesso i genitori sembrano dimenticare, tanto da diventare degli spietati hooligans a discapito dei figli, è stata ampiamente dimostrata da uno studio condotto dalla George Washington University, pubblicato sul Journal of Physical Activity & Health.
La ricerca, focalizzata principalmente sul calcio, ha coinvolto 142 piccoli calciatori, 37 allenatori e 57 genitori e ha fatto emergere che, tra i motivi che fanno innamorare dello sport che si pratica, ci sono soprattutto l’amicizia, seguita dal fare squadra e dall’incontrare allenatori che si propongano con approccio positivo, oltre ai rituali di squadra che indubbiamente costituiscono un collante indispensabile per far sentire ogni bambini parte di un gruppo affiatato.
A conferma di ciò ci sono anche le parole di Maria Cristina Maggio, della clinica pediatrica di Palermo, esperta di attività sportiva e salute in età pediatrica per la Società italiana di pediatria, la quale ha dichiarato: “Con l’adolescenza il 33% dei ragazzi abbandona l’attività e l’80% di questi proveniva dalla stessa specialità praticata fin da piccino. Lo sport deve essere divertente, stimolare le relazioni e la condivisione senza primeggiare. Bisognerebbe che allenatori e federazioni capissero le esigenze dei giovani. Non riuscire ad essere i primi come vorrebbe il coach crea delusioni e, per non affrontare la frustrazione della sconfitta, il giovane si allontana dalla pratica sportiva”.
Vera MORETTI
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