Torna a far parlare di sé Marina Abramovic, l’artista serba, ma ormai naturalizzata statunitense, che ama autodefinirsi “Grandmother of performance art”.
Questa volta si tratta di un documentario girato in Brasile da Marco Del Fiol, intitolato The Space in Between. Marina Abramović and Brazil.
Si tratta di un viaggio intrapreso per lenire il dolore e le sofferenze per la perdita di un amore, che continua a tormentarla anche di notte, attraverso il sogno e il ricordo.
Ma sembra che sia anche un tentativo di fuga da una sovraesposizione mediatica, che l’ha portata sì ad essere definita regina insuperabile della performance ma anche diventare bersaglio delle critiche più feroci.
Questo film, dunque, ha un significato di redenzione e di ritorno all’introspezione, con la performance che arriva a mostrare il buio della sofferenza, ma anche i limiti, fisici e psichici, dell’uomo e di sé stessa.
Per questo, non ci sono filtri nella narrazione, neppure quando viene ripreso un guaritore che interviene senza anestesia su alcuni malati. E subito la chirurgia del corpo diventa chirurgia dell’anima, attraverso un’espiazione fisica necessaria e i rituali che diventano il vero leit motiv del film.
L’artista non è semplice spettatrice, ma li sperimenta su di sé, come l’ayahuasca, una droga sciamanica che la porta a non controllare più il suo corpo e la sua mente.
Anche le piante sono fonte naturale si cura, perché “nel regno vegetale ogni specie ha la sua anima e uno scopo”. E, ad avvalorare la tesi, Abramovic sostiene che l’uomo “non ha bisogno di arte perché la natura lo è già: sono gli uomini che vivono in città ad aver bisogno di opere perché non hanno tempo”.
Da questo documentario si evince ancora più chiaramente il rifiuto delle religioni, perché non deve essere l’istituzione ma la fede a guidarci. E la purificazione deve avvenire a partire dai traumi infantili e adolescenziali, di cui dobbiamo liberarci.
E lei lo fa per prima raccontando quando da piccola la madre, ossessionata dalla pulizia, costringeva i suoi amici a indossare una maschera per entrare nella sua stanza, evitando così qualsiasi contagio di virus.
Per sfuggire alla maniacalità della madre, Marina ha cercato un suo mondo parallelo, a giocare con le ombre. Il film si chiude con l’immagine iniziale in cui l’artista si addentra nella caverna in cerca di una nuova vita, dopo la guarigione.
Ma, se il film finisce, il viaggio decisamente no perché l’artista sostiene di non sentirsi mai a casa in nessun luogo, che la porta ad essere una nomade moderna.
Vera MORETTI